E’ con grande dispiacere che ci lasciamo il deserto alle spalle sapendo che quei posti ci mancheranno per tanto tempo. Pian piano la sabbia lascia il posto a lunghe e desolate sterrate che ci condurranno, entro l’ora di pranzo, nel centro di Foum Zguid: Un rabbocco ai serbatoi e il pranzo a base di carne alla griglia ci permettono di riprendere le necessarie forze per il prosieguo del percorso. Da qui in poi la strada si fa meno impegnativa e percorreremo gran parte del tracciato su asfalto.
Arriviamo (questa volta nel primo pomeriggio e ancora con parecchie ore di luce a disposizione) a Ouarzazate la Cinecittà marocchina.
Già alle porte della città notiamo gli ingressi di alcuni studios cinematografici così come ci appaiono anche sparsi qua e la lungo la main street che conduce al centro. Subito notiamo che, nonostante sia un paese sito in Marocco, lo stile di vita sia ben superiore a quello incontrato sino a poche decine di chilometri prima. Belle strade, palazzine in ordine, viali larghi e spaziosi accolgono numerosi esercizi commerciali e alberghi di spessore. Riusciamo a trovare alloggio, anche a buon prezzo, in un bellissimo albergo stile occidentale poco distante dal centro (dopo tanti giorni ci concediamo un piccolo lusso). Dopo la doccia e un piccolo momento di relax abbiamo, finalmente, il tempo di sederci tranquilli a bordo piscina a sorseggiare una birra fresca. Come per l’hotel, anche per la cena ci prendiamo un altro lusso scegliendo un bel ristorante gestito da europei. Un piatto di pasta dopo tanto tempo diventa quasi un obbligo al quale personalmente obbedisco.
La mattina seguente ci trova belli pimpanti per una tappa che, sulla carta, prometteva grandi panorami ma anche un bel tour de force: le famose Gole del Dades ci attendevano. Ci arriviamo dopo un trasferimento su asfalto piuttosto lungo che termina in un interminabile serpentone che corre lungo l’omonimo fiume fino a giungere al punto più stretto del canyon: un tratto dove le montagne restringono la sede stradale a tal punto da rendere difficile il passaggio di due veicoli contemporaneamente.
Da quel punto in poi la strada inizia a salire in un susseguirsi di tornanti stretti e ripidi. Proprio quel tratto di strada, visto dal punto più alto prende le sembianze del serpente cui ho accennato diventando uno dei tratti di strada più fotografato del Marocco; cosa che anche noi facciamo immortalando il paesaggio.
Proseguendo la sede stradale si fa meno comoda fino a far sparire del tutto l’asfalto nel momento in cui iniziamo l’ascesa del Grande Atlante che questa volta attraversiano nella parte dove ci sono le vette più alte. Villaggi immersi nel nulla e distanti parecchi chilometri uno dall’altro passano veloci sotto i nostri occhi mentre incrociamo diverse adolescenti che rientrano a casa a dorso di muli o asini carichi di erbe o legna. La vita da queste parti non deve essere proprio agevole, almeno secondo i nostri canoni. Comunque ci sorridono e ci salutano al passaggio.
La strada ormai è un continuo sterrato che si inerpica mano mano e il buon fondo, comunque, ci permette di tenere una buona media sia per le moto che per il 4×4 che ci segue passo passo. Da lontano vediamo le cime innevate che si avvicinano mentre sul GPS vediamo l’altitudine aumentare ad ogni tornante. Quando pensi che dopo l’ennesima curva possa iniziare la discesa ti accorgi che c’è un altro passo da valicare.
L’aria inizia a farsi più pungente ma l’impegno e la concentrazione alla guida fanno passare tutto in secondo piano. Arriviamo, con grande dispiacere, fino a quasi 3000 m. di altezza e, finalmente, iniziamo la discesa verso il piano e verso il villaggio di Agoudal sito a quota 2400 m. di altitudine.
Maciniamo il lungo tratto in discesa tutto d’un fiato e arriviamo al villaggio abbastanza provati. Qui vediamo il Marocco che non ti aspetti: oltre al panorama completamente diverso dal deserto e dalle zone costiere anche le persone sembrano essere di diversa etnia. Il modo di vestire e i tratti somatici sembrano appartenere più agli abitanti delle Ande che ai magrebini. Un riad alle porte di Agoudal ci ospita per la cena consumata attorno ad un termocamino acceso. Al termine della cena ci prepariamo a passare la notte: camera senza riscaldamento e nottata trascorsa a meno 8° di temperatura ci persuadono a prendere i sacchi a pelo dai gavoni nella macchina e di dormire in modalità “baco da seta”: praticamente tutti integralmente infilati nei sacchi a pelo.
Al mattino ci accoglie una bella giornata di sole che attenua il freddo della notte. Iniziamo le operazioni di partenza ma il mio DR Big non ne vuole sapere di avviare il motore. I tanti tentativi risultano vani fino a che il motore si blocca definitivamente. L’iniziale indecisione sul da farsi (dal traghetto ci dividevano ancora 5-600 km.) veniva sconfitta dall’innata fantasia e capacità di adattamento alle avversità degli enduristi e troviamo un fabbro al quale facciamo costruire un congegno che, una volta fissato al posto del gancio di traino, possa permettere l’aggancio della moto. Capito il disegno l’artigiano di Agoudal lo costruiva alla perfezione e, grazie all’illuminante intuizione enduristica, potevamo riprendere il viaggio con la soddisfazione di Jacopo che finalmente poteva avere un compagno di viaggio in auto.
Da Agoudal decidiamo di percorrere, per la maggior parte, strada asfaltata per non rischiare ulteriori ritardi. Nonostante l’impiego di vie piuttosto comode il paesaggio ci riempie comunque la vista specie mentre attraversiamo un bosco di cedri. Sappiamo che il cambio di paesaggio rappresenta l’addio alle pendenze del Grande Atlante.
Giungiamo a Meknes all’imbrunire e transitando in un largo viale notiamo una miriade di baracchini da dove si leva un invitante fumo di griglia: Sosta obbligatoria (vista l’ora) prima di prendere alloggio in un bell’albergo della cittadina che, il giorno successivo, ci vede nella veste di turisti con una bella passeggiata all’interno della locale Medina prima di intraprendere il viaggio in direzione di Chefchaouen ovvero da dove tutto era iniziato.
Raggiungiamo la città celeste in poche ore di viaggio e prendiamo alloggio in accogliente ostello; subito dopo siamo nuobamente impegnati in una sessione di turismo fotografico durante la visita ai luoghi che non avevamo potuto vedere in precedenza. Decidiamo di fermarci a Chefchaouen anche il giorno successivo visto che il porto di Tanger Med poteva essere raggiunto in poche ore e che il fascino della città celeste vale la pena di essere approfondito soprattutto nelle ore serali quando i colori delle strette vie ti avvolgono in un’atmosfera misteriosa con le piccole botteghe artigiane che riempiono ogni spazio della città.
Un’ottima occasione, che non ci lasciamo sfuggire, per assaporare con più attenzione gli odori delle spezie e dei caratteristici sali da bagno che vengono venduti in ogni dove nonché per scoprire le abitudini e le tradizioni quotidiane dei locali: Viviamo quindi un’esperienza che fa la differenza tra il turista, che ingurgita il tutto velocemente senza assaporare nulla e in modo bulimico, ed il vero viaggiatore che assapora tutto come il sommelier che assaggia il vino.
Lasciamo Chefchaouen con nostalgia anche se il desiderio di tornare a casa ci fa percorrere in distensione gli ultimi chilometri che ci separano dall’imbarco dove arriviamo in comodo anticipo utile per poter svolgere tutte le pratiche doganali in completa tranquillità. Il viaggio in traghetto ci riserva l’ultima sorpresa: un mare molto agitato ci scombussola la notte e parte del giorno successivo costringendoci ad un digiuno forzato e a prendere dosi massicce di apposito farmaco. Giungiamo in orario al porto di Savona con il problema di dover portare la moto in avaria almeno a Genova dove avevamo lasciato i carrelli e poi sino a casa in provincia di Viterbo.
Ci viene in aiuto Hashim, un giovane che ha appena avviato attività di importazione di merce in Marocco, il quale a bordo del suo furgone completamente vuoto è diretto a Frosinone. Si rende disponibile a portare me e la moto fino a Genova ma a causa della amicizia nata nel breve tragitto gli farò compagnia fino a Tarquinia e per ringraziarlo divido con lui parte delle spese e gli faccio compagnia durante tutte le ore di viaggio notturne.
Finisce qui la bella avventura vissuta con intensità e passione che lascia un altro indelebile ricordo.
Cosa mi resta del viaggio raid?
Per prima cosa i colori: il rosso in tutte le sue sfumature. Lo vedi dappertutto dalle dune alle montagne arse dal sole, dalle mura delle abitazioni dei villaggi alle bandiere che sventolano sugli edifici pubblici e lungo le arterie principali delle cittadine attraversate. Come dimenticare i ragazzini di tutte le età che al nostro passaggio salutavano con un cenno della mano o allungavano il palmo per “battere il cinque”? E le segnalazioni di pericolo lungo le piste formate da sassi messi uno sull’altro a bordo pista? Quanti azzardi ci hanno permesso di fuggire!
E ancora…
Gli odori delle spezie che condiscono ogni pietanza ancora li sento con piacere (a dire il vero ad esclusione del cumino che dopo due giorni chiedevamo espressamente di non mettere più). Infine le molte contraddizioni di un paese in forte crescita: dall’ordine delle città più grandi del nord e della costa alla confusione dei villaggi subsahariani e di montagna; il vociare frenetico dei mercati delle medine e delle kasbah che si contrappone al silenzio rassicurante delle immense vastità desertiche.
Un’esperienza che non può essere descritta in questo pur lungo racconto ma un’avventura che andrebbe vissuta in prima persona per comprenderne la vera essenza e che consiglio di fare con un’unica raccomandazione: partire con animo sereno e tanto spirito di adattamento. Solo così vivere una tale esperienza può dare le soddisfazioni che merita!